Diego Alverà racconta. Alfonso de Portago, il destino di una vita.

Aveva un nome lungo e pesante. Raccontava storia e futuro, denunciava provenienze illustri e traiettorie promettenti. Ma quella lunga teoria di nomi e rimbalzi nobiliari che gli teneva compagnia sin dalla nascita nulla avrebbe potuto al cospetto delle cronache mondane e del jet-set. Così, in quei pudici anni Cinquanta, il poco altero Cabeza de Vaca venne accantonato in favore di un più efficace marchese de Portago. Quella sottrazione, ancorchè poco gradita, salvava almeno radici e ascendenze. E poi un marchese al centro dei riflettori del bel mondo faceva sempre notizia. Ma l’accelerazione costante, la vibrazione meccanica e la polvere delle corse automobilistiche avrebbero richiesto ben altro. Così, per tutti, in pista come ai box, sarebbe diventato stato solo Fon, il marchese volante.

Il senso di un’esistenza

Alfonso Antonio Vicente Eduardo Ángel Blas Francisco de Borja Cabeza de Vaca y Leighton, XVII marchese de Portago, XII conte de la Mejorada, era nobile, affascinante e ricco. Veniva da un mondo separato e distratto, incantato e intangibile. Poteva qualsiasi cosa. Il denaro e il nome della sua famiglia avrebbero aperto molte porte guadagnandogli sempre interesse e agio. Così, Alfonso poteva entrare e uscire da saloni ed eventi, poteva cambiare albergo o residenza a piacere, poteva acquistare cose, case o bolidi, poteva decidere del proprio futuro in ogni istante della sua giornata. Con quella vita leggera e aerea ci era diventato adulto senza mai considerare limiti od ostacoli, perché, per uno come lui, non esistevano. Forse, anche per questo, decise di sfidarli.

Il brivido della sfida

Così, il senso della sfida e il brivido della competizione divennero nuove dimensioni da esplorare. Fon si mise alla prova in molte discipline, dal nuoto all’ippica, dal polo al salto con l’asta, scoprendo di eccellere pressochè in tutto, di poter competere con i migliori, magari anche di riuscire a batterli. Vinse gare e titoli. Una sola cosa aveva però il potere magico e supremo di rapirlo e trasportarlo in un mondo altro e diverso: la velocità. Era infatti quella potente vertigine a monopolizzare tutti i suoi sogni e i suoi pensieri, a scuotere ogni singola piega della sua anima. A questa avrebbe consacrato quindi l’intera esistenza. Così, che fendesse l’aria con un paio di sci o al volante di un bob lanciato in un lungo budello ghiacciato, che impugnasse la cloche di un aereo o stringesse tra le mani il volante di una macchina da corsa, Alfonso prese a giocare d’anticipo con la vita, non per noia ma per l’inebriante sensazione di sentirsi vivo e, forse anche, finalmente all’altezza delle sue regali prerogative. Quello era il punto: provare a sopravvivere a se stesso e a quella vita agiata piovuta dal cielo o, quanto meno, provare a meritarla.

Solo correre

Con le quattro ruote Fon ci sapeva davvero fare. Chi lo vedeva aggirarsi tra le vetture prima della partenza poteva tranquillamente scambiarlo per un meccanico insonne o un giornalista a caccia di indiscrezioni. Giacche larghe e trasandate, barba di qualche giorno e profonde rughe di sonno facevano sempre compagnia a un fare gentile e attento  mentre le mani cercavano di domare capelli che non vedevano pettine almeno dall’alba precedente. In poco tempo Alfonso divenne parte integrante di quel mondo, ne assunse ritmi e sembianze. Alla fine, quel suo viaggio aveva trovato una meta. Alla fine aveva capito che a lui interessava solo correre, aveva capito che solo così avrebbe dato un senso alla sua vita. Perchè quello era il suo destino.

Il rapporto con il Drake

Gli inizi erano stati difficili. Fon aveva cominciato a sfidare il cronometro a bordo di auto private, litigando con curve e pregiudizi. Al crescere delle prestazioni si era calato negli abitacoli di bolidi sempre più veloci e importanti.  Aveva provato anche a cimentarsi con le più massacranti maratone della velocità: aveva mangiato la polvere alla “Carrera Panamericana” ed era scampato alla dura fatica della “1000 Km di Buenos Aires”. Ma alle gare di durata aveva scoperto di prediligere quelle su pista, tra l’asfalto dei circuiti, perché lì il suo stile di guida e quello spunto rabbioso diventavano sempre un valore aggiunto. Al volante delle monoposto Alfonso sembrava possedere un tocco raro e magico e Ferrari, il Drake, non tardò ad accorgersene. Lo chiamò in squadra a fare compagnia a Fangio, Castellotti, Musso, Hawthorne e Collins. Di quella straordinaria batteria di campioni, Alfonso era la giovane promessa, l’astro nascente. La sua prima stagione di Formula Uno non fu affatto semplice. Riuscì a tagliare il traguardo una sola volta, in seconda posizione nelle code di Fangio, al Gran Premio d’Inghilterra. Come i compagni di scuderia subì il fascino magnetico del Drake, anche lui si lasciò catturare da quell’estenuante toboga di emozioni, di alti e bassi. Perché Enzo i piloti li metteva sempre sotto pressione, magari anche arrivando a spingerli l’uno contro l’altro. Quella era la sua maniera di spremere il loro talento, quello era il suo modo per vincere le gare.

L’ultima “Mille Miglia”

Quell’ultima “Mille Miglia” Fon non l’avrebbe nemmeno dovuta correre. Il Drake aveva altri piani per lui, ma l’improvviso forfait di Musso, aveva scoperto un volante. Così Ferrari lo aveva convocato di fretta e furia affidandogli una macchina potente ma  a lui del tutto sconosciuta. Quell’offerta, però, non si poteva rifiutare. Aveva così fatto spazio al suo fianco all’amico giornalista Gurner e aveva pure scommesso un discreta somma con l’animaccia di Gendebien su chi di loro due avrebbe tagliato per primo il traguardo di Brescia. Fon, però, non era affatto tranquillo. Quella non era una gara adatta alle sue caratteristiche ma, soprattutto, non conosceva il comportamento nervoso di quella 335s preparata per la diversa guida di Musso. Alla vigilia, inoltre, erano accadute troppe cose strane. Nelle ore immediatamente precedenti la partenza si erano affacciate ombre inquietanti, lo spettro di un’incombente malasorte oltre a qualche brutto pensiero. Quelle nubi pesanti divennero purtroppo parte della sua tragica fine.

La tragedia

A pochi chilometri da Brescia, dopo una furiosa rincorsa condotta ad oltre duecento chilometri all’ora tra strade bianche, ponti, piazze e viadotti, il destino lo attende al varco al chilometro numero ventuno del rettilineo che collega Guidizzolo e Cerlongo sulla strada Napoleonica. Il traguardo di Brescia non dista che poco più di dieci minuti. Fon spinge a fondo il pedale dell’acceleratore, ma la sua Ferrari 335S numero 531 esce rovinosamente di strada per l’improvvisa esplosione di uno pneumatico, piombando sulla folla in festa ai lati della strada. Fon muore sul colpo assieme al copilota, il giornalista americano Edmund Gurner Nelson. Per centinaia di metri e cupi rimbalzi la sua Ferrari, priva di controllo, semina morte e disperazione portandosi via anche le esistenze di nove spettatori, quattro adulti e anche, purtroppo, cinque bambini.

“Cosa vuol dire vivere”

Dopo quel tragico dramma nulla fu più come prima per le corse su strada. La “Mille Miglia” non si sarebbe più disputata, almeno in quella forma furiosa e straordinaria. Sarebbero seguite lunghe e roventi polemiche, un processo pubblico condotto sulle pagine dei quotidiani ed anche uno penale, a carico del Drake e forse della velocità stessa, celebrato con grande clamore nelle aule di giustizia. Alla fine, in qualche modo, se la sarebbero cavata tutti, tranne le vittime, ovviamente. “Inutile drammatizzare: questa è la vita di chi corre in macchina” avrebbe sentenziato Fangio ai giornalisti che lo incalzavano a caccia di notizie. Ed era tutto drammaticamente vero. Perché quel mondo non aveva voglia di ipocrisie, recriminazioni o scandali. Perché chi corre di tempo per queste cose non ne ha mai. Perché poi, come diceva sempre Fon, “se non hai mai spinto sull’acceleratore, nulla è mai avvenuto. E soprattutto non potrai mai sapere che cosa vuol dire vivere”.