Diego Alverà racconta. Giovanni Lodetti, la leggenda di “Basléta”.

Quella di Giovanni Lodetti è una storia dolce e amara, quella di chi ha dovuto fare sempre i conti con gli scherzi di un destino mai del tutto amico. Quella di Lodetti è la storia di un sogno, una successione di tram presi al volo all’ultimo istante e di altri purtroppo persi per un niente, per qualche contrattempo, qualche scherzo del destino o, addirittura, qualche gioco di potere.

“Basléta”

Sui campetti della parrocchia Giovanni per tutti era “Basléta” per via di un mento volitivo e sporgente. Faceva il mediano. Nel centrocampo di quegli anni quel suo ruolo faticava a guadagnare le prime pagine dei quotidiani. Tutte le attenzioni erano sempre per i bomber e i grandi registi, mai per chi si spremeva i polmoni a contendere il pallone al fango e ai polpacci avversari. Ciò nonostante quel ruolo di ferro rimaneva decisivo. Lo sapevano gli allenatori, che, per far girare al meglio i registi e le punte, dovevano trovare saldi ancoraggi e punti di equilibrio davanti alle difese. Lo sapevano gli attaccanti, che avevano bisogno di una buona copertura. Lo sapevano i portieri, che speravano nei loro formidabili recuperi per far rifiatare la difesa.

Il dono dell’ubiquità

Per stare in mezzo al campo servivano buoni polpacci e grossi polmoni, necessari per tappare i buchi ed evitare di prendere sberle al primo contropiede avversario. Ma, tra molte altre cose, serviva anche tanta testa, perché la palla bisognava farla girare senza far torto a nessuno, alla panchina come ai compagni. Lodetti, in questo, era speciale. Faceva il mediano, ma non si limitava ai compiti che gli impartivano. Ci metteva sempre del suo perché era un giocatore completo, uno di quelli che magicamente stava sempre dove doveva essere. Quella sorta di ubiquità l’aveva conquistata con il sudore e un feroce attaccamento all’esistenza. Perché per la sua generazione il calcio era qualcosa più di uno sport o un passatempo: era un’opportunità, la più incredibile delle chance, un futuro sognato per chi era cresciuto nel niente. In campo Giovanni si sacrificava volentieri per gli altri e non sprecava mai niente, né un sorriso né una palla. Faceva tutto parte del suo carattere. Correva tantissimo, copriva e chiudeva, anche con decisione quando le circostanze lo richiedevano. Oltre a tutto questo, Lodetti aveva anche la straordinaria capacità di fare “alzare” la squadra, di guidarne le mosse e seguirne, palla al piede, i movimenti, uscendo dalle situazioni più complicate al momento giusto, per guadagnare metri preziosi e liberare le punte. Per questo il Giovanni da Caselle Lurani era venuto al mondo, per preparare la scena alle giocate da brivido dei più grandi, di gente come Rivera, Altafini e Mora, a cui avrebbe poi fatto da efficace spalla.

Un radioso futuro

Lodetti aveva davanti a sè un radioso futuro. Era arrivato alle giovanili del Milan nel 1960. Era arrivato in pulman dalla Lodigiana senza clamori e da lì aveva cominciato a crescere. In soli due anni si guadagna l’attenzione di Rocco e Viani che già nel 1961 lo chiamano ad integrare i ranghi della prima squadra. In otto stagioni scenderà in campo duecentosedici volte. Lodetti diventa così un punto fermo del Milan di Rocco, una pedina fondamentale, di grande forza ed efficacia. Fu quella straordinaria continuità ad aprirgli anche le porte della nazionale. Nell’estate del 1970 Lodetti è tra i ventidue che partono per il Messico per disputare il campionato del mondo di calcio. I suoi piedi e la sua testa sarebbero risultati molto utili in mezzo al campo. Quelli messicani potevano essere i suoi mondiali, la sua consacrazione, il trampolino di lancio per entrare nella storia, nel ristretto club di quelli che contano e che cambiano maglia solo per un’altra grande squadra. Ma il destino ha in serbo altri piani. Succede infatti che Anastasi si infortuna e al suo posto Valcareggi chiama dall’Italia altri due giocatori, Prati e Boninsegna. Pierino e  Bonimba sono due attaccanti agili e atletici, possono davvero far comodo a quelle altezze. La selezione italiana sale quindi a 23 giocatori: uno di loro, purtroppo, dovrà tornare a casa. All’inizio tutti pensano ad uno degli ultimi arrivati, poi però subentrano altre valutazioni.

Un maledetto imbroglio

Lodetti viene rassicurato da tutti i tecnici, dal vice Bearzot e dagli altri. Nell’imminenza della scadenza del termine per la comunicazione alla Fifa della rosa ufficiale lo chiama la moglie dall’Italia spiegandogli che sui giornali è uscito il suo nome. Danno per certo che tocchi a lui tornare a casa. Lodetti è sbalordito. Non può credere che quello sia un maledetto imbroglio. Ma i giornali non sbagliano. All’ultimo momento i funzionari azzurri infatti lo convocano e gli spiegano che purtroppo non c’è più spazio per lui. Dispiace molto a tutti. Comunque grazie lo stesso, sarà per la prossima volta. Così Giovanni torna a casa in compagnia di un’amarezza epocale.

Sacrificato sull’altare delle convenienze

Si chiederà a lungo i motivi di quella svolta, che verranno a galla solo molto tempo dopo e non saranno del tutto edificanti. Perché verranno fuori i soliti “giochini” tra grandi squadre e la coda lunga di una vischiosa operazione di mercato. La società rossonera aveva infatti deciso di cederlo alla Sampdoria per arrivare a una giovane promessa di nome Romeo Benetti. Tecnicamente Lodetti non era più un giocatore del Milan e, quindi, nessuno poteva più garantire per lui. In quella nazionale, costruita con il manuale Cencelli su rigidi blocchi contrapposti, il posto in campo era sempre frutto di una “protezione istituzionale”. Venendo a mancare quella, si finiva immediatamente fuori rosa. Così Giovanni era stato fatto fuori, era stato sacrificato sull’altare delle convenienze. Nonostante l’amara delusione, Lodetti continuò a giocare. Non più per tentare la conquista della Coppa dei Campioni ma per conquistare la fatidica salvezza. Dopo Genova, sarebbero arrivate altre due piazze importanti come Foggia e Novara. Tante partite, tanti applausi e tante pacche sulle spalle. Ma ormai la ruota del destino aveva fatto il suo giro. Giovanni, però, non avrebbe mai smesso di correre, nemmeno dopo il ritiro dall’attività avvenuto nell’estate del 1978.

“Ceramica”

Gli era infatti venuta la fregola di fare ancora quattro tiri per combattere la noia, per capire quanto s’accorciava il fiato, per sentirsi ancora vivo. Al parco ci andava tutte le domeniche non solo a fare una corsetta ma anche a vedere i ragazzotti contendersi il pallone su quel campo di fango e pozzanghere. E così, una mattina più leggera di altre vede che in campo manca un uomo e butta lì al portiere che se vogliono un vecchietto con po’ d’esperienza lui c’è. Gli fanno cenno di entrare, gli danno una casacca e così finisce, ancora una volta, a impartire a tutti lezioni di calcio e stile. Diventa famoso. Per tutti al Trenno è “Ceramica”, per via della scritta che porta sulla sua maglietta. Lui incanta i compagni di squadra e si diverte a rincorrere il pallone con quello stesso indomito spirito che aveva animato i suoi esordi. Poi un bel giorno di primavera un vecchio tifoso rossonero che porta in giro la cagnetta, lo riconosce e fila sbalordito dallo stesso portierino a chiedere cosa mai ci faccia in campo il Giovanni Lodetti da Caselle Lurani. Il portierino lo guarda stralunato e gli chiede: “E chi sarebbe mai ‘sto Lodetti?”.