Diego Alverà racconta. L’ultimo infinito applauso di Dmitrij Šostakovič.

Dmitrij Dmitrievič era uno spirito inquieto. Dietro un viso altero e un’espressione vitrea e distaccata, Šostakovič celava un ampio catalogo di umori mutevoli. La sua salda cosmogonia personale era costruita su radici profonde, sull’amore viscerale per la sua terra ma anche su vezzi leggeri e passeggeri. Tra tutte le passioni della sua vita, una risultò decisiva. Alla musica si sarebbe infatti affidato sempre, soprattutto per superare le prove più impegnative.

Un uomo severo acceso da grandi passioni

Nonostante l’apparente severità delle sue opere, Dmitrij Dmitrievič era uomo di grandi passioni, non solo per il mondo delle note e i mirabili intrecci dei suoi formidabili registri pianistici. Come molti intellettuali della sua epoca, anche Šostakovič si accendeva per cose anche molto materiali, come la danza, il gioco delle carte o il calcio della sua amata Dinamo Leningrado, di cui era solito seguire le lunghe trasferte in treno. Per una breve parentesi, il football lo aveva stregato e lui aveva addirittura accarezzato l’idea di fare l’arbitro, ruolo che gli pareva congeniale al suo misurato senso del reale. Dmitrij amava molto anche le lettere e il rassicurante rituale delle relazioni sociali. Come buona parte dei poeti e dei pensatori della rivoluzione, anche lui faticava a prendere le distanze dalla fitta geometria delle relazioni mondane. Su tutto, aveva sviluppato un’autentica predilezione per l’osservazione dei sobri rituali da salotto arrivando spesso a coglierne i tratti più grotteschi, quegli stessi che animano da sempre molte pagine dei grandi autori russi. Come molte personalità complesse e poliedriche, anche Dmitrij Dmitrievič adorava i particolari, i loro intrecci, il casuale disporsi delle loro ricorrenze. Prestava spesso attenzione a dettagli quasi insignificanti, allo scorrere del tempo, agli improvvisi cambiamenti di clima e temperatura, alla punteggiatura delle missive e alle pause, perché, confidava ai pochi amici, anticipavano sempre qualcosa. Tra molti altri ben celati interessi, mostrava anche una speciale devozione per i necrologi, di cui era avido e attento lettore. Di quei sobri commiati amava il ritmo e l’idea che ne era alla base, che l’esistenza di ciascuno potesse e dovesse in qualche modo essere sempre affidata a chi veniva dopo. Molte sue costruzioni musicali si mostrarono affini all’elegante arte elegiaca: secondo i critici, nella fatale solennità dei suoi registri Dmitrij Dmitrievič nascondeva infatti i fantasmi e le anime di tutti gli amici scomparsi.

San Pietroburgo

Šostakovič era la musica; una musica emozionata, creativa e profonda. Era proprio grazie alle note che rincorreva luci e ombre, cercando di sciogliere quel sottile senso di angoscia che, a suo dire, permeava ogni espressione umana. Dmitrij Dmitrievič era uomo di antichi e forti legami, in primis con San Pietroburgo, la sua splendida, dotta e algida città. Era profondamente legato ad essa, affezionato a come gliel’avevano raccontata e a come l’aveva conosciuta da bambino. Per questo, nonostante la furia iconoclasta della rivoluzione avesse provveduto a stravolgere anche la toponomastica, lui continuava a usare i vecchi nomi, quelli mutuati dai racconti dei genitori e dai suoi maestri. Così via Marat, dove abitava, per lui era rimasta via Nikolas e il Teatro Malyj manteneva l’originario nome di Michajlovskij. Questo stretto e viscerale rapporto con i vicoli, le strade, i sottoscala, i canali e le lunghe prospettive, con l’anima pulsante della città, si sarebbe rivelato decisivo e salvifico. Lo avrebbe infatti risparmiato alla furia delle purghe staliniane trasformandolo in un padre della patria. L’amore per la sua città lo sorresse in tutti i momenti difficili. Soprattutto, lo spinse a trasferire quella tensione emotiva e ideale nella partitura del suo massimo capolavoro, la straordinaria Settima Sinfonia, passata alla storia come la “Sinfonia di Leningrado”.

L’assedio

Nel 1942 Leningrado, già sfibrata dalle dure purghe del regime, deve affrontare uno dei più duri assedi della storia. Le armate tedesche la accerchiano, chiudendone varchi ed accessi sin dal settembre del 1941. Gli ordini di Hitler sono semplici e glaciali: le sue divisioni devono conquistarla e raderla al suolo, devono farne un esempio per tutti, una nuova Cartagine. Ma la città e i suoi residenti resistono ad oltranza per novecento lunghi giorni senza rifornimenti, tra stenti indicibili e pesanti sacrifici. Sin dai primissimi mesi di quell’atroce assedio, Šostakovič è al lavoro. Sta cercando di completare la sua Opera 60, ma, mese dopo mese, lunghe ombre finiscono per addensarsi all’orizzonte. I militari lo mettono sotto pressione. Gli chiedono qualcosa che possa aiutare i cittadini di Leningrado a resistere.  Quella sua opera è destinata a diventare un simbolo per l’intera nazione, la “vittoria della luce sull’oscurità, dell’umanità sulla barbarie”. Dmitrij Dmitrievič fatica però a convivere con questa epopea. E’ una questione di attitudine e di una svogliata e sobria riluttanza. Dmitrij è tragicamente sospeso. Lui, l’uomo delle sfumature e del grottesco, mai avrebbe immaginato di assurgere ad eroe della resistenza. Mai, soprattutto, avrebbe pensato di diventarlo con la sua opera musicale più sofferta, complessa e sofisticata.

Andata e ritorno

Una cosa è certa: prima di lui nessuno aveva mai composto sotto il fragore delle bombe. E’ una partitura lunga, estesa e impegnativa che necessita di un’orchestra al completo. Šostakovič lavora giorno e notte, con grande intensità e concentrazione. Dmitrij Dmitrievič rimane seduto alla scrivania per ore, con la piccola figlia Galia in braccio. Con una mano impugna nervosamente la matita, mentre con l’altra simula i movimenti sui tasti del pianoforte. Questa volta di suonare non ce n’è bisogno, perché la musica lo agita dentro. Dmitrij Dmitrievič deve solo sentirla e trascriverla. Gli unici conforti sono le sigarette e l’alcol, che non manca mai e che filtra il clamore dei combattimenti come pure la pressione dei burocrati. Nonostante le precarie condizioni fisiche, Šostakovič riesce incredibilmente a completare il lavoro. Riproduce la partitura in un microfilm che, con un periglioso viaggio, raggiunge prima Londra e poi New York. Toscanini è il primo a suonarla. Il maestro italiano rimane a bocca aperta. Quella musica possiede qualcosa di magico, una forza che la rende diversa da tutto il resto e che la fa suonare tragica, solenne ma, al contempo, anche forte e vigorosa. Forse l’idea nasce così, sull’onda di quelle prime concitate recensioni. La linea diretta tra gli Stati Maggiori Alleati si scalda rapidamente. La decisione è presa da Stalin in persona, anche su sollecitazione degli altri governi. Quell’opera ha già assunto i tratti del simbolo. Va eseguita a Leningrado, sotto le bombe, costi quel che costi. E allora la partitura fa un leggendario viaggio di ritorno e da New York riapproda avventurosamente sulle sponde della Neva. La affidano a Karl Eliasberg, l’unico direttore sopravvissuto ancora disponibile in città, l’unico ancora in grado di reggersi in piedi. Karl la ricopia a mano, di suo pugno e ne stila centoventi esemplari. La vera sfida, però, è trovare un’orchestra che la esegua, perché quella ufficiale della Filarmonica purtroppo non esiste più. Molti musicisti sono scomparsi, altri sono deceduti o imprigionati dal regime. Trovare le persone in quelle condizioni è un’opera titanica, lenta e certosina. E, poi, ci sono anche da organizzare le prove, che, per la cronica assenza di energia e il perenne coprifuoco, non possono durare più di un quarto d’ora alla volta.

Un lungo e commosso applauso

Alla fine, però, la determinazione ha ragione di tutto, di ogni riserva e di tutte le difficoltà pratiche, e la mattina del 9 agosto 1942, nonostante un incessante bombardamento, la Filarmonica di Leningrado riapre i battenti riempiendosi in ogni ordine di posti. Sul palco sale un gracile e incerto Eliasberg. Due parole di rito e poi la bacchetta si abbassa per l’atteso segnale. L’Opera 60 in do maggiore si apre solenne con il primo grave movimento, il tema dell’invasione. Il pubblico si lascia rapire dai suoni in un assorto e religioso silenzio che durerà sino al termine dell’esecuzione, sino all’ultimo vibrare di corde. Poi esploderà in un lungo e commosso applauso.

Un monumento all’ostinazione

Quell’infinito applauso non premia solo l’incredibile e orgogliosa forza d’animo con cui è stata portata in scena, non saluta solo quella musica ispirata, la bravura degli orchestrali o la grande abilità di Eliasberg. Quel lungo e liberatorio applauso è soprattutto per il Maestro, per Dmitrij Dmitrievič e la sua lucida ostinazione, la stessa che permetterà a quella platea e ad un paio di milioni di altri concittadini di trovare la forza di sopravvivere in quelle estreme condizioni. Trentatre anni dopo, all’alba di un altro 9 agosto, Šostakovič si congederà definitivamente dal suo pubblico, rimanendo per sempre nella storia della sua città. L’eco di quell’accorato applauso finale lo accompagnerà anche in quell’ultimo viaggio.