Diego Alverà racconta. Reinhold Messner, l’etica del salire.

Reinhold è la montagna, il suo silenzioso e muto respiro, i rimbombi e gli echi della risalita, le selle ripide e la roccia verticale, gli anfratti ghiacciati e gli aspri crinali battuti dal vento. E’ lo spirito dell’inviolato, del coraggio della bellezza, l’importanza della rinuncia, della fatica e della resistenza. Ma, soprattutto, Reinhold è il rispetto profondo per tutto ciò che ci circonda. Con Walter Bonatti, George Mallory e Paul Preuss, Messner ha rappresentato l’anima di un alpinismo lirico e umano che, prima di tutto, è palestra di vita e crescita interiore, prova intima di maturità e sfida ai propri limiti, mai gesto atletico o mero esercizio stilistico.

Funes e le Odle

Sui sentieri d’alta quota Reinhold era venuto adulto. Quella dimensione verticale lo aveva stregato sin da bambino, sin da quando era salito con il padre in vetta al Sass Rigais. Aveva solo cinque anni, grande entusiamo e un’idea ancora confusa di quello che il futuro gli avrebbe riservato. Ciò nonostante, fu proprio sulla sommità di quella grande montagna che Reinhold capì immediatamente che quella sarebbe stata la sua vita. Funes e le Odle furono la prima casa. Guardando quelle cime, ripassando ogni giorno quei profili taglienti da cartolina, dove il sole si specchia al cospetto di un mare verde di abeti e conifere, Reinhold fantasticava e sognava ascese incredibili e imprese impossibili. Furono quei picchi a salvarlo dalla deriva dell’ordinarietà e del quotidiano, a fargli capire che scalare sarebbe diventato qualcosa più di un divertimento, che tra quelle vette non si sarebbe mai perso, che proprio lì, su quei sentieri, avrebbe conosciuto la maturità, il dolore, la perdita e la rinascita. Sarebbe stata solo una questione di tempo, perché Reinhold quelle vette sognate le avrebbe accarezzate davvero, una ad una, con rispetto e umiltà. Le scalerà, infatti, tutte e più volte. Poi comincerà a guardarsi attorno, cercando altrove quella stessa profondità e quella tensione, buona per vivere senza scivolare nella mediocrità, necessaria per non dimenticare i sogni, indispensabile per cercare ossigeno dove più scarseggia e quando l’aria si fa sottile come una lama.

La via più diretta

Ci sono diversi modi per attaccarsi alla montagna. Quello di Messner era privo di scorciatoie o aiuti, di rifornimenti e portatori. Reinhold saliva con naturalezza e semplicità, senza riserve di cibo e ossigeno, senza clamori o investimenti. Saliva con rispetto, spesso in solitaria, alla maniera dei pionieri, senza imprigionare le amate cime in infinite cordate. E, ad un certo punto di quel viaggio, quel suo modo di concepire la salita verticale e la scalata diventò un pensiero universale, una brillante filosofia per comprendere l’esistenza e le sue aperità. Per questo è sempre rimasto distante  dalla modernità dell’approccio progressivo, dalla logica dei campi base e dalle affollate spedizioni al seguito. Perché quando guardava una parete Messner pensava sempre alla via più diretta, pensava a Hermann Buhl e al fascino di un’idea sempre straordinaria e vitale. Perché salire per lui era una questione di intelligenza e visione, di acume e resistenza. Quello era il suo alpinismo, in arrampicata libera e solitaria, leggera e veloce, senza lasciare traccia del passaggio, senza corde fisse e con l’unica concessione di qualche chiodo ben piantato nella profondità nella roccia.

Il respiro profondo della montagna

Il suo alpinismo è sempre rimasto questo. Con il fratello Gunther aprì nuove vie ovunque. Ha dominato pareti celebri e inviolabili sulle Alpi come sulle Dolomiti, ha battezzato cime difficili e impegnative, dall’Ortles al Civetta, dall’Eiger alla Marmolada, dalle Grandes Jorasses al Sella, ha avuto il privilegio di sentire il respiro profondo delle vette nepalesi e himalayane. Le sue imprese le ha sempre portate a termine senza clamore ed enfasi, con grande consapevolezza e rispetto per la natura selvaggia in cui si è immerso. Gli “ottomila”, la terribile esperienza del Nanga Parbat, la discesa senza corde fisse, il congelamento di sette dita dei piedi, il dramma della valanga e la tragica perdita del fratello, le polemiche che ne seguirono lo resero più forte e duro, più attento e meno accondiscendente nei confronti di un mondo che andava già alla deriva, che scambiava l’ascesa per un mero azzardo competitivo, che vedeva nella scalata un’opportunità commerciale e che pensava a facili ricavi senza restituire mai nulla ai territori e alle popolazioni locali, senza alcuna tutela per l’incanto e la speciale magia di quei luoghi.

Il primo in tutto

Anche per questo, per questa sua appassionata visione, per la capacità di vivere empaticamente l’alpinismo e per il modo gentile ma determinato, deciso e talvolta anche scomodo di trasformare ogni sfida in un’esperienza responsabile, Reinhold rimane il più grande di tutti, il primo ad essere salito per ben due volte sulla vetta dell’Everest senza bombole d’ossigeno (“una lunga e continua agonia” racconterà poi), il primo ad aver scalato quattordici “ottomila” nel giro di pochi anni, quasi sempre in arrampicata libera, con attrezzature ridotte al minimo e aprendo spesso nuove vie, il primo ad aver attraversato a piedi l’Antartide senza l’aiuto di mezzi o animali, il primo a “domare” in solitario il deserto dei Gobi, il primo a dedicare una serie di straordinari musei alla cultura della montagna, il primo a dare un diverso e più profondo significato all’impossibile. E per questo rimarrà per sempre un vero cittadino del mondo, un alpinista libero e un gigante del pensiero.

“Bandiere sulle montagne non ne porto: sulle cime io non lascio mai niente, se non, per brevissimo tempo, le mie orme che il vento ben presto cancella.”