Perché la letteratura sportiva non esiste.

Un romanzo è un romanzo, a prescindere. Non è mai invenzione fantasiosa, ma interpretazione piuttosto, frutto di studi lunghi e accurati, di ricerche, interviste, ricostruzioni, raffronti e approfondimenti.

Il romanzo è il modo elettivo con cui abbiamo imparato a raccontare la realtà, a sopravvivere e a pensare all’eternità.

“Il maledetto United” è un romanzo. Lo trovate sugli scaffali di tutte le librerie, così almeno spero. In stretto ordine alfabetico è alla P di Peace, David Peace.

Non è invenzione fantasiosa ma fascinosa interpretazione di personaggi mirabili e umani, straordinari e meschini, più o meno come tutti noi. Le storie dopotutto sono questo, il modo privilegiato con cui abbiamo imparato a raccontare noi stessi, le nostre sfide, soprattutto il modo in cui le abbiamo superate, se ci siamo riusciti.

Nessuno ha mai pensato di etichettare “Il maledetto United” come romanzo sportivo, perché, come tutti i romanzi, rimane indiscutibilmente un’opera dalla vocazione più ampia che guarda a un pubblico vasto e indistinto, che va oltre lo stretto perimetro degli appassionati.

Come tutti i romanzi.

Eppure questo trattamento, questa fastidiosa e insinuante etichettina del “romanzo sportivo”, questa “condanna” tutta italiana che rimanda a riti e a salottini radical chic, figlia di schemi ottocenteschi, dell’alto e del basso, del vero e del falso, pervade ancora l’asfittico panorama nazionale.

Viene celebrata in pompa magna da schiere di compiacenti cultori che si scambiano ossequiose recensioni sui gruppi social, viene rimpallata a casaccio sulle pagine dei maggiori inserti culturali dei quotidiani, in quei rarissimi casi in cui un’opera riesca fortunosamente a bucare le strette maglie delle redazioni, viene salvificata da librai preoccupati, addetti ai lavori in carenza di ossigeno, recensori in crisi di idee, critici e giornalisti.

Il mercato, poi, è quello che è e, quindi, il settore, la specialità vanno comunque e sempre dichiarati. L’etichetta arriva così, stampata in maiuscolo sui volumi e indicata nei disclaimer.

Capita così che persino insospettabili e stimate grandi firme finiscano per trascriverla nelle note a margine dei loro lavori, quasi dovessero tranquillizzare, quasi dovessero scusarsi preliminarmente con i propri lettori, perché romanzare non è bene, perché romanzare è sinonimo di invenzione, di bufala, di falso!

Capita così che tutti si affannino a parlare di nuove e vecchie tecniche narrative di equivoca radice anglosassone, peraltro senza averne la pur minima contezza, salvo poi segnalare nella seconda di copertina del loro nuovo libro che il loro romanzare, tentazione in cui sono sorprendentemente caduti, si basa comunque su fatti reali. Il loro ovviamente, non l’altrui.

Chissà cosa direbbe Tolstoj, chissà quale occhiata ed epiteto avrebbe rivolto al censore che si fosse preso la libertà ordinatoria di inserire “Guerra e pace” sotto l’etichetta di “letteratura di guerra”. Chissà cosa penserebbero Hemingway o Fitzgerald di tutta questa nostrana retroguardia.

E’ un po’ come precipitare nell’Italietta di sessant’anni fa, come stringere tra i denti il sigaro del sommo Brera per ritrovarci alle prese con una polemica acida e inattesa, con il colpo di coda sprezzante della cultura “alta”, di un Umberto Eco che ci ha appena pubblicamente battezzati un “Gadda spiegato al popolo”.

I libri non sono tutti uguali, anche e soprattutto quelli che si occupano di sport, di musica, di scacchi o politica. Dipende da cosa raccontano, dipende soprattutto da come lo fanno.

Un elenco compilatorio di capitoli, avvenimenti, date, gare, partite non sarà mai un romanzo ma, al più, forse, un ritratto biografico, un buon manuale, un esaustivo compendio o un testo scientifico da cui trarre preziose informazioni.

Il romanzo, però, è tutta un’altra cosa.

Rimane in assoluto il modo più diretto che abbiamo a disposizione per calarci nei panni dei protagonisti, per ascoltare le loro ragioni e i loro torti, per perderci nei loro pensieri, per rivivere le loro emozioni e respirare un significativo squarcio della loro esistenza nel tentativo di portare a casa tutto quello che ci può essere utile per affrontare al meglio l’ordinario subbuglio dei nostri percorsi.

Ecco perché la letteratura sportiva non esiste. E’ letteratura, punto. Solo letteratura.

E la letteratura parla sempre di noi.