Diego Alverà racconta Leonardo Sciascia

L’8 gennaio 1921 nasceva a Racalmuto Leonardo Sciascia, scrittore, saggista e poeta.

Sciascia è stato uno spirito guida, un pensatore libero e indipendente, un’anima anticonformista, una di quelle che ci si augura sempre di trovare sulla propria strada. Come narratore ha offerto una brillante rappresentazione del potere e di tutta la sua ampia gamma di tragiche ipocrisie. Come intellettuale ha dato alla parola giustizia nuova e rigorosa sostanza. Come politico ha cercato di scavare tra le tante esecrabili vicende di un presente oscuro e inquietante. Ma Sciascia, tra tanti, ha avuto un pregio ancor più grande, perché come uomo è riuscito nella difficile impresa di assegnare a termini come valore e prezzo un nuovo e prezioso significato.

“Una storia semplice”

Ci sono due cose nella vita di Sciascia che mi hanno colpito e che coincidono, in qualche modo, con la fine della storia, piuttosto che con il suo inizio. Perché nello stesso giorno in cui prese congedo da questo mondo, il 20 novembre 1989, Adelphi diede alle stampe una delle sue opere più memorabili, una storiella morale che faceva pace con il passato, con le sue radici e un’idea etica del mondo. Il maestro lo aveva scritto mentre stava combattendo la malattia, nell’attesa di una fine ormai prossima. Lo aveva completato dal letto d’ospedale negli ultimi giorni di vita. Quell’opera non era nata dal caso. Sciascia l’aveva accarezzata a lungo, come si fa con la geometria di emozioni antiche o, magari, con la teoria del tutto. Era cresciuta in lui al pari della consapevolezza di un universo in movimento. Tra quelle righe vi aveva racchiuso tutto quanto: i suoi natali, le sue traiettorie, la scrittura e la storia della sua splendida terra e dei poteri che l’hanno a lungo soggiogata. Tra quelle parole respirava l’illuminismo degli esordi come pure quel maturo e caustico umorismo che tradiva una feroce critica sociale. “Una storia semplice” raccontava, a dispetto del titolo, una storia enorme e complicata che, al progredire della lettura, si faceva piccola ed esemplare nella sua intima lucidità. Perchè in quelle righe il maestro era riuscito a racchiudere l’intera sciagurata trama di una nazione, le oscure stanze del potere, gli affari riservati, la negligenza colpevole delle istituzioni, la meschinità delle cose umane e la mancanza di rispetto per sé e gli altri. Cose alte e cose basse, ancestrali ed elementari, come erano soliti fare i più grandi, come erano soliti raccontare Omero e Shakespeare, Dickens e Poe. In quella trama il maestro aveva celato le ombre di quella deteriore mentalità contro cui più volte si era scagliato, i patti scellerati e le convenienze, i silenzi colpevoli e l’omologazione culturale a cui si era ribellato. Nel ridotto spazio di quelle pagine si lasciò alle spalle tutto, ma non la speranza di un futuro diverso.

Una profonda esigenza etica 

Del potere e dei suoi subdoli intrecci Sciascia se n’era sempre occupato. Perché quel potere presentava sorrisi invitanti e volti suadenti, modi affabili e bonari. Ma sotto quella facciata quegli uomini si mostravano invece cinici e senza scrupoli, sprezzanti e autoritari. Quel potere era onnipotente e onnivoro, ubiquo e totalizzante. Lo aveva osservato mentre era impegnato a disporre a piacimento di interessi e comparse, lo aveva inseguito mentre evitava angoli e diritti, lo aveva apertamente criticato ogni volta che sacrificava sull’altare della governabilità qualsiasi cosa, anche la giustizia. Saranno proprio questi temi a ricorrere in molti libri e saggi. Si rifletteranno tra le pagine de “Il giorno della civetta” e di “Todo Modo”, e torneanno anche nel suo ultimo e agile pamphlet. Alle trame di quell’elegante sviluppo narrativo, Sciascia affiderà il profondo senso etico della giustizia e la necessità della sua tutela al cospetto dell’indifferenza, del perbenismo e dell’ottusa banalità del male. A differenza di altri immensi capolavori, “Una storia semplice” si mostrerà unico ed essenziale. Il suo accorato addio incrocia infatti piani reale, lasciandosi alle spalle un tempo metafisico per inquadrare il presente da un punto di vista distaccato e meno fatale, nell’urgente consapevolezza di un radicale cambiamento. Una speranza, un ammonimento o, forse, solo un testamento olografo.

“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta.”

Le questioni relative al suo lascito spirituale e letterario ci conducono direttamente anche a quello materiale, fatto di lettere più pesanti del piombo e destinate, quindi, a non rimanere solo sulla carta. Quelle parole avrebbero sfidato il tempo chiudendo idealmente l’ultima pagina della sua brillante avventura letteraria. Una faccenda delle sue, piccola e semplice, che prendeva ancora una volta a prestito alcune singolari metafore. Perché Sciascia, poco prima di lasciare questa esistenza di carne e pensieri, stese di proprio pugno poche frasi. Erano una sorta di memoria, qualcosa da incidere sulla nuda pietra. Parole sottili e sorprendenti, rubate alle emozioni e all’intelligenza, pensieri che restituivano tutta la modernità della sua visione, che celebravano un proverbiale anticonformismo e riscattavano, al contempo, un poetico e fondato pessimismo. «Ho deciso di farmi scrivere sulla tomba qualcosa di meno personale e di più ameno, e precisamente questa frase di Villiers de l’Isle-Adam: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”. Così partecipo alla scommessa di Pascal e avverto che una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano.»