Diego Alverà racconta J.D. Salinger

Il 27 gennaio 2010 muore a Cornish, New Hampshire, Jerome David Salinger.

In un mondo ossessionato da fama e gloria, disposto sempre a tutto, anche ad ogni idiozia e facezia pur di conquistare i fatidici cinque minuti di celebrità, ho sempre apprezzato chi ha sfidato le regole del gioco rifuggendo la ribalta e il contatto con i lettori. Salinger è certamente tra questi, perché J.D. è diventato uno scrittore di fama mondiale nonostante un’ostinata e ingombrante assenza.

In un quadro avvolto da incertezza e mistero i tratti della sua storia e della sua complessa opera hanno alimentato suggestioni, fughe, derive o traiettorie. Quella sua assordante distanza è diventata nei decenni un potente catalizzatore per storici e critici che gli hanno dedicato intere carriere e decennali studi nel tentativo di sviscerare e, magari, cogliere le cause di quel volontario isolamento. Per tutti, alla fine, non si trattò di semplice e fiera misantropia quanto piuttosto di un disagio affilato e geometrico, maturato nelle pieghe di un articolato spettro di difficili esperienze.

 

Una drammatica esperienza al fronte

Jerome aveva infatti pagato a caro prezzo la drammatica esperienza della Seconda Guerra Mondiale, trascorsa servendo i Servizi di Informazione alleati durante la lunga e aspra campagna europea, dallo sbarco in Normandia sino alla caduta di Berlino.

Salinger era stato spedito al fronte e lì aveva così avuto modo di frequentare il lato oscuro dell’esistenza, il buio della ragione e degli uomini. Da quel lungo e doloroso incubo non ne sarebbe mai uscito del tutto. Quei duri anni lo segnarono infatti profondamente, non solo a livello emotivo, lasciando solchi e tracce destinati in seguito a diventare centrali nella sua scrittura.

Quell’esperienza gli insegnò a crescere e a difendersi, a respingere decisamente ogni tipo di regola o imposizione, a diffidare di attenzioni posticce e amicizie interessate, di tutto quanto suonava “phony”, falso e ipocrita. Perché l’effimero serve solo a ingannare il tempo, perché davanti al rischio della morte non c’è finzione né poesia. Perché lì c’è solo un pozzo oscuro e spaventoso, il limite, la meta e il senso di tutto il viaggio.

 

“The Catcher in The Rye”

Quando nel 1951 pubblica l’epocale “The Catcher in The Rye”, dall’intraducibile titolo tratto da un poema di Robert Burns, Jerome è una persona molta diversa da quella che dieci anni prima aveva entusiasticamente affidato i primi straordinari racconti al New Yorker.

Salinger ora ha ben altro di cui occuparsi. Guarda alla vita e all’esistenza con occhi esigenti e disincantati. Non ha tempo da perdere né energie da sprecare nel gestire relazioni umane di cui francamente non avverte la necessità.

Per certi versi, Salinger è davvero la controfigura di Holden Caulfield, non il suo contrario. “Il giovane Holden”, pubblicato in Italia da Einaudi con un’iconica copertina, non era soltanto un romanzo di formazione ma anche una moderna celebrazione della “teenage angst”, di quell’amaro conflitto tra cinismo e innocenza che ha regalato pagine immortali della letteratura americana del Novecento, mettendo in discussione un sistema di valori e un sentire collettivo che suonava falso, perbenista e pretestuoso, rigido e pieno di arroganti presunzioni.

Ridurre quell’infinito romanzo solo ad un avvincente spettro di traiettorie narrative risulta però assai poco lunsinghiero per il suo autore. Perché Salinger in quelle pagine ha regalato una forma diversa di linguaggio affidandovi la magia di un nuovo lessico emotivo, unico e dirompente, fatto di ripetizioni e brillanti singolarità. Quel lavoro testimonia la vitalità dei suoi pensieri, racconta quanto quel suo sottile e nervoso disagio abbia brillantemente combattuto i pesanti trattamenti psichiatrici e una lunga teoria di fantasmi. A distanza di anni quel testo risulta ancora ostico, irregolare e frammentato, gravido di immagini e metafore, a partire da quel suo famoso titolo che ha interrogato diverse generazioni di traduttori regalando immagini molto diverse a seconda del paese in cui veniva tradotto e pubblicato, dal francese “L’attrape-coeurs”, “l’acchiappacuori”, allo spagnolo “El guardián entre el centeno”, “Il custode nelle segale”.

 

Le chiavi profonde di noi stessi

Come per molti altri amici, quel libro ha cambiato il ritmo anche della mia esistenza. Lo ha fatto quando di anni ne avevo solo sedici, quando credevo che la vita sarebbe stata un lampo e avrebbe regalato solo brividi.

Nell’incredibile complessità delle sue trame, questo libro è poi tornato a trovarmi dieci anni dopo aggiungendo un pizzico di inconsapevolezza ad una tardiva e precaria maturità. L’assoluta specialità di quest’opera è tutta qui, perché non conosce il tempo, perché lo governa in modo subdolo e occulto. “Il giovane Holden” è un libro per ogni stagione dell’esistenza e, come tutti i grandi classici della letteratura, continua a custodire chiavi profonde che hanno a che fare con l’idea di noi stessi, con il rispetto dei nostri pensieri e delle nostre attitudini, con la meraviglia dei punti di vista più diversi e l’ebbrezza dei percorsi più rischiosi e irregolari.

Anche per questo “Il giovane Holden” rimarrà per sempre una singolare mappa per le stelle, una cartina geografica utile a farci perdere l’orientamento e la via maestra, a interrogarci sul senso di questo passaggio materiale e ad aiutarci a comprendere i limiti e l’importanza delle nostre tensioni ideali.

“A chi precipita non è permesso di accorgersi né di sentirsi quando tocca il fondo. Continua soltanto a precipitare giú. Questa bella combinazione è destinata agli uomini che, in un momento o nell’altro della loro vita, hanno cercato qualcosa che il loro ambiente non poteva dargli. O che loro pensavano che il loro ambiente non potesse dargli. Sicché hanno smesso di cercare. Hanno smesso prima ancora di avere veramente cominciato.”