Diego Alverà racconta Brian Clough

 

Nel football moderno i risultati sono tutto: i fatidici tre punti decidono di vite, destini, profili e carriere. Il mondo del pallone e quello dello sport non prescindono mai dai meriti conquistati sul campo. La modernità brucia sogni e speranze alla velocità di un solo batter di ciglia producendo un vortice di miti fragili ed effimeri.

Così, il vincitore di oggi è destinato a diventare rapidamente l’eroe tragico di domani, condannato a masticare nuovamente la polvere da cui si è faticosamente levato. Così, il calciatore che segna una tripletta nel famigerato posticipo del lunedì viene immediatamente promosso al rango di immortale campione, salvo essere poi ignominiosamente declassato, nel week-end successivo, a mediocre comparsa.

La grassa retorica dell’instabile immaginario sportivo tenta così di supplire ad un drammatico vuoto di contenuti e valori alzando la voce e reclamando entusiasmo nella speranza di scuotere un pubblico sempre più addormentato, svogliato e distratto. In questo contesto l’ordinario pretende di diventare eroico e mitologico, straordinario e stupefacente, anche se invece rimane vacuo e impalpabile come nuvole rapide che scorrono all’orizzonte. Per fortuna, però, non è sempre stato così.

Straordinarie eccezioni

Nel secolo scorso grandi interpreti della nobile arte pedatoria si sono invece misurati con un tempo lento e con sfide ardue ed impari. Questi talenti hanno inciso a ripetizione il proprio nome nell’albo d’oro di manifestazioni prestigiose. Buona parte di loro lo ha fatto con i colori di squadre blasonate, allestite per vincere, nutrite e programmate per quello scopo a suon di visioni e investimenti. Ma la ruota della storia ci ha anche consegnato straordinarie eccezioni.

Brian Howard Clough ne rappresenta forse la più vitale e significativa. Perché Brian ha ottenuto fama, titoli e successo alla guida di formazioni piccole e “provinciali”, prive sulla carta dei mezzi e delle risorse necessarie per competere con le squadre più affermate. Perchè Brian, al cospetto di questa innocua contemporaneità di “fenomeni”, era davvero un incomparabile genio del football.

Talento a prima vista

Clough aveva alle spalle natali poveri e una fulminante carriera di bomber prematuramente interrotta per un grave infortunio al ginocchio. Brian aveva calcato per anni i campi della Prima Divisione ma non aveva solo giocato a football. Per qualche pregevole capriccio del caso, del suo sport aveva carpito subito gli equilibri più segreti e le meccaniche più arcane. Ne aveva colto il respiro profondo, imparando a riconoscere sempre il talento e quanto di buono c’era in ognuno dei propri compagni. Non solo. Clough aveva anche appreso i fondamenti dell’arte della motivazione.

Si era così scoperto abile nel trovare sempre i nervi da tendere, incredibile nel portare in rilievo le diverse attitudini di ciascun giocatore, anche quelle che nemmeno pensavano di possedere. In questo aveva sviluppato un’incomparabile talento. Brian eccelleva, infatti, nel ridare smalto e consapevolezza a giocatori che avevano avuto la loro buona occasione ma che poi era stati accantonati. Con quei giocatori strinse patti maturi, vincolandoli a un ferreo codice interno, fatto di abnegazione, sudore, impegno ed assoluta dedizione. Ma oltre ai limiti dei suoi calciatori, Brian aveva imparato anche a riconoscere i propri. Per questo aveva capito di aver bisogno della capacità e del talento di eccellenti colleghi. Per questo aveva composto un solido sodalizio con Peter Taylor.

Una coppia di ferro

Era infatti Peter a vagliare i giocatori, era Peter a farli lavorare sul terreno di gioco ed a colmare le cadute d’intensità, le pause e le assenze. Brian invece disegnava le tattiche chiedendo a ciascuno di condividere e investire la parte migliore di sé per spingerli là sino a dove non sarebbero mai arrivati. Fu così che Brian e Peter costruirono mirabili serie positive inventando dal nulla squadre vincenti.

I fenomenali successi ottenuti con il Derby County e il Nottingham Forest fecero di Clough e Taylor una straordinaria coppia di allenatori. Clough divenne uno dei tre fortunati tecnici a vincere il massimo titolo inglese con due diversi club. Ma, a differenza di Herbert Chapman e Kenny Dalglish, Brian progettò per tempo la conquista di titoli e trofei, partendo dal basso, accomodandosi sulla panchina di squadre che navigavano in brutte acque, che faticavano anche solo a guadare la palude della Second Division, creando con attenzione e acume, stagione dopo stagione, un solido gruppo di base su cui innervare sapientemente talento, velocità e sregolatezza.

Un manager moderno

Clough ha rivoluzionato il mestiere dell’allenatore trasformandolo in un moderno manager che non solo possiede una lucida visione d’insieme ma che cura anche in prima persona tutte le strategie tecniche, la preparazione e la scelta dei giocatori negoziando contratti e ingaggi. Per questa sua mentalità e per il suo modo di fare, così sfrontato, decisionista e provocatorio, entrò più volte in contrasto con i board delle squadre che allenava arrivando a scontri diretti che si rivelarono spesso fatali.

Ostinato e vincente

Brian era una persona cocciuta, ostinata ma anche di grandi valori e idealità. Amava le sfide anche quando sapeva che erano perse in partenza. L’incredibile storia dei suoi quarantaquattro giorni a Leeds, trascorsi ad allenare una squadra che considerava del tutto avversa nello spirito e nell’anima, è una delle parabole più incredibili e poetiche del calcio britannico.

Il suo conflittuale rapporto con Don Revie, l’ex allenatore del “maledetto United”, è infatti lo specchio di un diverso modo di intendere il calcio, lo sport e l’esistenza stessa. Perchè per Brian esisteva solo un calcio, quello che giocavano le sue squadre, gradevole, veloce e aggressivo, regalato alle terraces in un perimetro di lealtà e trasparenza senza scendere a patti con furbizia e opportunismo e senza ricorrere mai al fallo sistematico. Perché Brian era davvero uno “special one”, perché Brian amava la bellezza. A questa avrebbe sacrificato tutto, persino le proprie convinzioni.