L’insolito impossibile. Perché in Italia i romanzi sportivi stanno sempre sullo scaffale sbagliato.

 

Sono arrivate quasi a cento le date dei miei spettacoli di narrazione dal vivo. Alla luce di quanto accaduto in questi ultimi anni e soprattutto del moltiplicarsi degli impegni, è un risultato francamente inaspettato e lusinghiero, così come l’interesse e l’affetto manifestati dal pubblico.

Tutto questo mi fa considerare, oggi più che mai, che tanta è la voglia di ascoltare, di seguire, di affidarsi, di lasciarsi andare al ritmo di parole e emozioni, circostanza che rimane del tutto sorprendente al cospetto di un ecosistema della comunicazione sempre più dominato da fretta, slogan e superficialità. Di questo sono davvero grato a tutte le persone che hanno lavorato con me e a tutte quelle che ho incrociato sul cammino e che mi hanno dedicato un po’ del loro tempo.

Eppure, ogni volta che qualche mia narrazione dal vivo trova spazio in un cartellone teatrale, viene accostata ad aggettivi quali “insolita” o “inusuale”. Al di là del significato proprio dei termini a cui si ricorre probabilmente anche solo per segnare la palese diversità rispetto alle opere drammaturgiche più canoniche, queste parole mi spingono a una riflessione.

Perché di questo, dell’insolito, dell’inusuale, del sorprendente dovrebbe sempre occuparsi il teatro, soprattutto quello dei grandi palchi, delle grandi produzioni e dei grandi attori. Perché su questo dovrebbero sempre lavorare scrittura e narrazione.

Prendere ispirazione dal quotidiano per gettare un ponte ideale verso l’ignoto e il futuro: questo dovrebbe essere l’obiettivo di qualsivoglia miseenscène perché i tormenti e le inquietudini dell’esistenza si possono leggere non solo nell’immortale mito di Sisifo ma anche nella sorda fatica del ciclista, nel fiato appeso del pilota, nella presa incerta dell’alpinista e, persino, nelle quotidiane e ordinarie peripezie di tutti noi.

Barriere, schemi, pregiudizi relegano invece le narrazioni a tema sportivo ai margini, anche quando recuperano ed esplorano nuove dimensioni, talvolta tangibili, visive e sonore. Così il racconto che affronta coraggiosamente il palcoscenico in compagnia solo di parole, suoni e immagini, oltre che dell’attenzione del pubblico in sala, rimane ancora un’eccezione, un caso isolato, insolito e inusuale appunto.

Le medesime considerazioni si possono ben spendere anche per il romanzo sportivo, che continua ad essere cenerentola tra le cenerentole, una sorta di panda a rischio d’estinzione, per citare le parole di un grande maestro, guardato a vista da addetti ai lavori e giornalisti pronti a difendere il fortino dell’esclusiva sulla narrazione, preoccupati di perdere una storica ma sempre più friabile rendita di posizione.

Non è solo l’atavico confronto tra cultura alta e bassa, tra il salotto esclusivo e la ruvida superficie della strada. Il romanzo sportivo sconta, più di altre forme narrative, profondi pregiudizi e una fraintesa concezione ottocentesca che, agli occhi dei più, lo qualifica come opera di mera fantasia e, in quanto tale, lo considera meno affidabile del resoconto giornalistico, del saggio o dell’articolo che, nonostante la deriva di abusata retorica e luoghi comuni, si arrogano quindi il ruolo di fedeli interpreti del reale.

Queste mistificazioni semantiche meriterebbero di misurarsi con la lucida analisi di Walter Benjamin che, in un lontano saggio del 1936 intitolato “Il narratore” – straordinaria riflessione a margine degli scritti di Nikolaj Leskov – aveva spinto la narrazione verso confini che la contemporaneità stenta ancora a comprendere.

Eppure, invece, continuo a pensare che sia proprio arrivato il momento di aprire il resoconto sportivo (e non mi azzardo a scrivere racconto) a nuove forme e linguaggi, partendo magari da basi concrete e dalla necessaria integrazione dei diversi approcci e punti di vista, quello scientifico, proprio del processo storiografico, quello giornalistico e quello, infine, della scrittura letteraria e del romanzo.

Chi maneggia la complessa materia della non fiction narrative sa quanto sia ingeneroso ridurre il tutto a fantasia, e quanto queste opere siano invece costruite sulle solide fondamenta di fonti certe e verificate, sa che questi lavori sono frutto di una certosina opera di ricostruzione, setaccio, selezione e confronto tra informazione e notizie che lascia ben poco spazio di manovra.

La libertà creativa, più che mai congeniale alla dimensione letteraria del testo, si concentra quindi solo sulla veste narrativa, sulla forma, sullo spessore dei personaggi, sulla capacità di far immedesimare il lettore o il pubblico con i protagonisti del racconto.

Per fortuna, anche nel nostro paese, questa frontiera ibrida e per questo così stimolante è diventata una traccia battuta da molti bravissimi scrittori, come suggeriscono le pagine dei libri di Scurati, Lagioia, Siti e molti altri. Tutto questo però non accade nell’ambito dello sport e delle sue mutevoli letterature.

Alla fine, infatti, non siamo poi in molti a tenere convintamente il punto. Così, a ogni nuova pubblicazione, a ogni nuova narrazione, ci si augura tra noi di trovare critici o recensori disposti a concedere ai nostri lavori le medesime chances accordate ad un romanzo letterario, cosa che, per inciso, non avviene mai.

Eppure nessuno più in libreria si sogna di relegare i titoli “sportivi” di Nick Hornby, David Peace, Osvaldo Soriano, Joyce Carol Oates, Ernest Hemingway o David Foster Wallace, nello scaffale di settore, magari spalla a spalla con la manualistica, dove invece finiscono spesso i nostrani romanzi di sport.

A dispetto di canoni, schemi e categorie, dovrebbero essere solo i contenuti, ciò che ci affidano le storie che raccontiamo, a fare la differenza, a distinguere il romanzo dal mero resoconto, la narrazione dall’affabulazione, la vocazione universale di un testo da un obiettivo costruito a tavolino.

Sono i temi, le scritture, le emozioni che scatenano e la capacità dell’autore di calare il lettore nel cuore delle storie a far girare le ruote di questi ingranaggi. Sono la sorpresa, la curiosità, la voglia di confronto a stringere il cuore del pubblico sino a spingerne lo sguardo oltre la linea del suo orizzonte quotidiano.

Alla fine, quindi, tutto torna, perché è ancora l’inatteso a spezzare il canone e a scuoterci dal torpore, è la sorpresa che suscitano un racconto, una storia o un romanzo, allo stesso modo di una serie podcast, di un film o di un’opera artistica, a costringerci a fare i conti con noi stessi e con il mondo che ci circonda.

Ma non perdiamo la speranza, perché tutto può sempre accadere, perché, come dice Paolo Sorrentino, non bisogna mai confondere l’insolito con l’impossibile.