Once in a lifetime: Robert Smith

Il 21 aprile 1959 nasce a Blackpool Robert James Smith, di professione musicista. Robert è l’icona di un’intensa stagione sonora, l’indiscusso protagonista di alcune delle più originali pagine stilistiche del post-punk. Da quell’eruzione creativa Robert e i suoi giovani amici presero spunto per catturare lo spleen di un’intera generazione, anche se poi, com il tempo, quelle trame nervose finirono per lasciare spazio ad atmosfere intime e malinconiche e ad un marcato apparato visivo.

Una clamorosa “cult band”

Fu grazie all’impatto di una trasandata oscurità che i Cure divennero in breve una riluttante ed acclamata “cult band” che offriva ancoraggio a migliaia di giovani epigoni in cerca di emozioni, in un’orgia di pallori cadaverici, smalti, capelli cotonati e bigiotterie sepolcrali. Sotto quell’apparato stilistico si agitava, in realtà, un robusto telaio di riferimenti che flirtavano con le parole e le note, con il romanticismo e le black novel, con Edgar Allan Poe e Stéphane Mallarmé. Le traiettorie stilistiche della band inglese ruotarono così per decenni attorno al decadentismo e alla poesia maudit, all’ispirato profilo delle “murder ballads” e al romanzo gotico. A tenere assieme il tutto, provvedeva un impianto sonoro terso e cupo: in quei rimbalzi claustrofobici un’inquieta e ribellistica “teenage angst” sposava malinconie abrasive e visioni mesmeriche.

Cantori del disagio e del disincanto

Lavoro dopo lavoro, l’universo dei Cure si è affidato a dubbi e incertezze, raccontando il disagio di un mondo giovanile che aveva perso la freschezza del furore iconoclasta e che aveva cercato rifugio in una dimensione singolare e privata. Non di fuga, però, si trattava. Quella speculazione nascondeva nei fatti una tattica dilazione. Era, infatti, come lasciarsi alle spalle l’urgenza di furore e nichilismo cercando di aggirare i riti di un grigio conformismo da un punto di vista più basso e ricercato.Una sorta di distacco, il prodromo di una matura disillusione. Su queste rotte, Robert ha condotto la sua navicella per almeno quattro decenni assicurandole una lodevole continuità stilistica. Il tempo ha finito per smussare gli spigolosi perimetri degli esordi, quelli dello spettacolare trittico lirico composto da “Seventeen Seconds”, “Faith” e “Pornography”, sino a sciogliere le originarie asprezze elettriche in stesure sempre più leggere, accessibili e pop. In tutto questo lungo viaggio Robert, però, non è cambiato. Come capita ai più grandi, si è invece avviato verso una stagione più riflessiva consegnando la scrittura a trame morbide e sofisticate. Così i Cure, dall’acerbo lampo del post-punk degli esordi, si sono dedicati ad un dark-pop elegante e crudele che ha catturato il cuore di milioni di altre scie irregolari. Lungo le tappe di questo lungo percorso, Smith ha tenuto testa ad un assortito ventaglio di patologie psico-comportamentali trasformando lentamente la band nel suo progetto solista e ritrovandosi a comporre, arrangiare e suonare tutti gli strumenti all’insegna di un proverbiale delirio di onnipotenza creativa.

Fedeli a se stessi e al pubblico

I Cure sono sempre rimasti fedeli a se stessi e al loro affezionato pubblico. Il loro indiscusso e carismatico leader ha continuato a proteggere la propria privacy sotto un terapeutico cliché monocromatico dalle tinte forti, nel tentativo di sopravvivere al tempo, alle cadute, ai momenti di noia, alle cause fratricide per il possesso del nome e alle tentazioni offerte da traiettorie contigue e convergenti, come quelle descritte dai “cugini” Siouxsie and The Banshees, dove, per qualche anno, Robert andò a rimpiazzatre il graffio dela chitarra di McGeoch, o dai più laterali Glove, brillante palestra sonora allestita con la complicità dell’amico Steve Severin.

Il peso della propria icona

Nonostante il pianeta Cure continui imperterrito a descrivere orbite decisamente lontane dalle tendenze dell’attuale empireo musicale, l’affetto dei fan pare non conoscere cedimenti ed anche gli ultimi tour mondiali hanno registrato ovunque il tutto esaurito. In molti considerano, però, che proprio questo stabile perimetro rappresenti ormai il limite più pesante. Robert sembra, infatti, più che mai prigioniero dei suoi giorni migliori e fatica a fare i conti con il peso e la solitudine di un’ingombrante icona. Ma, come si sa, questo non costituisce certo un problema per il mercato, a dispetto del mal di pancia dei fan della prima ora per i quali era forse preferibile spegnere le macchine all’apice del successo anziché scivolare inesorabilmente in un’innocua ripetizione di schemi. A differenza di molti altri celebrati colleghi, Robert, però, ha almeno resistito alla tentazione di sfidare l’effimero universo mediatico rimanendo in disparte e continuando ad attribuire alla propria musica una dimensione del tutto intima, ombrosa e personale, taumaturgica e assai poco disponibile. E questa cifra, in un tempo scivoloso e infido come l’attuale, non pare certamente essere di poco conto. “Per me i Cure, e la musica in generale, non sono mai stati un business da coltivare avidamente: quando non compaio sui giornali per anni, non mi sento messo da parte, non ho attacchi di panico. I momenti di maggiore successo dei Cure sono stati quelli in cui ho sofferto di più.”